Dal testo iniziale del disegno di legge del Governo, il cui titolo reca “Contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato” – già di per sé una mediazione tra l’esigenza di fermare in tempi rapidi nuovo consumo di suolo e le preoccupazioni di chi temeva ripercussioni in un importante settore dell’economia – al testo licenziato dalle commissioni ambiente ed agricoltura, si è avuto un peggioramento tale da modificare in modo sostanziale la “ragione sociale” della proposta, che potrebbe realisticamente essere denominata “Incentivi al consumo del suolo per uso edificabile”.
Ai principi ed alle finalità della legge vengono infatti affiancati due pericolosi strumenti con cui si cancellano definitivamente le regole urbanistiche: l’articolo 5 (interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate) e l’articolo 6 (Compendi agricoli neorurali periurbani), Il primo è un inedito dovuto all’azione del Pd, in particolare dei deputati romani di quel partito. Basta guardare lo sfascio di Roma per accorgersi quale urbanistica abbiano in mente quei deputati, gli stessi che per anni hanno svolto importanti incarichi amministrativi nella città eterna o come assessori o come capigruppo nei cinque anni consociativi con l’ex sindaco Alemanno.
A questo si aggiunge un periodo di moratoria troppo breve e con le maglie troppo larghe per contrastare efficacemente una continua progressione dell’attività edilizia nell’immediato. Inoltre appare difficile che la norma entri effettivamente a regime entro tre anni dall’approvazione, il periodo successivo sarebbe così sottoposto ad una clausola di salvaguardia di dubbia efficacia.
La sensazione è che si stia cercando di approvare una norma bandiera, utile per la comunicazione ed il marketing renziano, ma assolutamente inadeguata per raggiungere concretamente l’obiettivo del contenimento del consumo di suolo. Obiettivo fissato dall’Unione Europea al consumo zero entro il 2050. Un obiettivo che questa legge, così come modificata dal PD, rende perseguibile per un solo motivo: di questo passo, nel 2050, non ci sarà più suolo da consumare.
Riportiamo di seguito un estratto di un articolo redatto dal professor Vezio De Lucia
[…]Comincio ricordando il percorso in tre atti che dovrebbe portare al contenimento del consumo del suolo (il traguardo è quello fissato dall’Unione europea di un consumo del suolo = 0 entro il 2050):
- con decreto del ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, di concerto con i ministri del ministero dei Beni Culturali e delle Infrastrutture e trasporti, avendo acquisito il parere della conferenza Stato Regioni è definita la “riduzione progressiva, in termini quantitativi, di consumo di suolo a livello nazionale” (art. 3, c. 1);
- la riduzione nazionale è in seguito ripartita fra le Regioni con deliberazione della Conferenza unificata (art. 3, c. 5);
- il terzo atto riguarda la riduzione del consumo di suolo dalla scala regionale a quella comunale, il che avviene con provvedimento delle Regioni e delle Province autonome (art. 3, c. 8).
Come si vede, è uno di quei meccanismi a cascata – Stato, Regioni, Comuni – che non hanno mai funzionato, figuriamoci in questa circostanza, quando sotto tiro sono quell’immane coacervo di interessi che comprende (per dirla con Valentino Parlato) gli stati maggiori e le fanterie della proprietà fondiaria.
Entrando nel merito, penso che uno scrupoloso ministro delle Politiche agricole possa decretare senza particolari problemi, entro un anno dalla entrata in vigore della legge, di quanto debba essere ridotto il consumo di suolo a livello nazionale. Una decisione che può avere una positiva ricaduta sull’opinione pubblica e non dovrebbe suscitare rilevanti ostilità.
Meno scontata è la decisione della Conferenza unificata che dovrebbe deliberare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale. Prevalendo sicuramente le Regioni più sensibili agli interessi del mondo dell’edilizia, la Conferenza potrebbe non deliberare entro i previsti 180 giorni dal decreto ministeriale. In tal caso dovrebbe intervenire un decreto del presidente del Consiglio, dopo aver acquisito il parere della Conferenza unificata (art. 3, c. 6).
Lo stesso dovrebbe succedere se le Regioni non determinano, entro i successivi 180 giorni, la ripartizione a scala comunale del consumo di suolo stabilito per ciascuna regione. Anche in questo caso, il potere sostitutivo è esercitato dal presidente del Consiglio previo parere della Conferenza unificata (art. 3 c. 9).
Questo è il punto. Per quanto ne so, in materia di politica del territorio, il potere sostitutivo dello Stato ai danni delle Regioni non è mai stato esercitato, basta ricordarsi delle generalizzate e mai sanzionate inadempienze regionali in materia di piani paesistici ex lege Galasso. Per non dire dei piani paesaggistici ex Codice del paesaggio. Comunque, ammesso anche che il Consiglio dei ministri intervenga per attuare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale, operazione che, in fondo, di per sé, non fa male a nessuno, escludo che nella maggioranza delle Regioni si provveda per tempo a ripartire fra i comuni la riduzione del consumo di suolo fissata a scala regionale. Ma ammesso ancora che, un giorno, questo possa succedere, non succederà mai che i comuni più disponibili nei confronti del cemento e dell’asfalto (dal Lazio in giù) provvedano nei tempi previsti a riformare gli strumenti urbanistici per cancellare le espansioni previste. Non c’è bisogno di una gran fantasia per dedurre che la legge non sarà applicata proprio dove sarebbe più necessario e urgente. Oppure – il che è lo stesso – sarà applicata quando non ci sarà più suolo da sottrarre all’edificazione. Mi si può obiettare che la norma transitoria (art. 11) blocca il consumo del suolo per tre anni dall’approvazione della legge. Ma la norma fa salvi opere, interventi, strumenti attuativi e procedimenti (anche solo adottati) che coprono abbondantemente i tre anni di moratoria.
Nel recente dibattito nelle commissioni VIII e XIII della Camera sono stati aggiunti altri due preoccupanti argomenti: i compendi agricoli neorurali e la rigenerazione delle aree urbane degradate.
I compendi agricoli neorurali (art. 6) sono una micidiale novità che riguarda la possibile trasformazione dell’edilizia rurale in attività amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, di cura, eccetera. Una legge che nasce dal ministero dell’Agricoltura per “promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente” (art. 1) consente viceversa la distruzione dell’attività agricola e dei relativi insediamenti rurali.
Ancora più inquietante l’altra novità, introdotta nelle ultime settimane, in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate (art. 5). Si tratta di una delega al governo a emanare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi volti a “semplificare le procedure per gli interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate …”. È una delega in bianco. I principi e criteri direttivi si limitano a richiedere che:
- siano garantiti interventi volti “alla rigenerazione delle aree urbanizzate degradate attraverso progetti organici relativi a edifici e spazi pubblici e privati, basati sul riuso del suolo, la riqualificazione, la demolizione, la ricostruzione e la sostituzione degli edifici esistenti, la creazione di aree verdi, pedonalizzate e piste ciclabili, l’inserimento di funzioni pubbliche e private diversificate volte al miglioramento della qualità della vita dei residenti”;
- i progetti “garantiscano elevati standard di qualità, minimo impatto ambientale e risparmio energetico, attraverso l’indicazione di precisi obiettivi prestazionali degli edifici, di qualità architettonica perseguita anche attraverso bandi e concorsi rivolti a professionisti con requisiti idonei, di informazione e partecipazione dei cittadini”.
Nella delega al governo non c’è traccia del rapporto che gli interventi di rigenerazione devono avere con la disciplina urbanistica. Si devono rispettare gli standard ambientali ma non quelli urbanistici. Sono esclusi solo i centri storici e i beni vincolati “salvo espressa autorizzazione della competente sovrintendenza” (ci mancherebbe). Non ci sono limiti dimensionali, si possono radere al suolo e rifare intere parti di città e paesi. Non sono richiesti impegni circa l’uso sociale e l’accessibilità. Sono ignorate le Regioni e i relativi poteri in materia. Insomma, non è difficile immaginare che le norme emanate dal decreto legislativo finiranno per costituire un “pacchetto” di criteri in deroga alla strumentazione urbanistica comunale. […]