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Rocce da scavo: “Sì al regolamento a patto aiuti realmente le imprese a tutelare l’ambiente”

Rocce da scavo: “Sì al regolamento a patto aiuti realmente le imprese a tutelare l’ambiente”

Da diversi anni il legislatore prova a regolamentare la disciplina relativa alla gestione di terre e rocce da scavo. I tentativi hanno creato una disciplina assai poco organica, il cui effetto, in alcuni casi, ha creato più confusione che altro. Nell’ottica di redigere una normativa capace di regolamentare in maniera funzionale la materia, nasce il DPR sul regolamento in merito alla disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo.

La necessità di un testo organico emerge dalla complessità dell’attuale normativa. Ad oggi infatti, le norme che regolamentano le procedure di bonifica sono complicate al punto da penalizzare oltremodo i virtuosi e finire per incentivare i disonesti. Il Movimento Cinque Stelle è dalla parte delle aziende che vogliono rispettare le leggi, per questo stiamo lavorando ad un testo tale da non rendere le norme troppo complesse e di conseguenza difficili da applicare. Quindi ben venga la nuova normativa, a patto che  la sua introduzione sia  realmente in grado di semplificare le cose.

A tal proposito è necessario segnalare alcune criticità.

La prima riguarda la definizione di materiale di riporto. La storia del nostro Paese ha fatto sì che gran parte del terreno sul nostro territorio contenga detriti e rifiuti post bellici (i così detti riporti storici) che sono stati sempre trattati alla stregua del suolo e sottosuolo, come è stato peraltro sancito anche dalla prima norma nazionale in materiale di qualità dei suoli (DM 471/99). Una recente interpretazione della normativa vigente, intervenuta nel 2010 e proseguita fino al 2012,  ha stabilito come, fino a diversa interpretazione, i materiali di riporto storici fossero considerati rifiuti, indipendentemente dalla qualità ma solo sulla base della loro genesi (materiali destinati all’abbandono e quindi rifiuti…).

rocce da scavoLa posizione, apparentemente restrittiva, ha comportato in realtà una deregulation alquanto preoccupante, nella gestione dei materiali di riporto. Questo a causa di procedure amministrative non regolamentate e di fatto impossibili da gestire. L’inquinamento causato dalla movimentazione di tutti questi materiali, se veramente li considerassimo rifiuti da rimuovere, sarebbe incalcolabile. I volumi interessati immensi. Per fare un esempio a grandi linee, per l’area di Milano sono nell’ordine di 30 milioni di m3. La movimentazione dei materiali, praticamente puliti, comporterebbe allo stato attuale il loro conferimento a centri di recupero, dove verrebbero trattati e miscelati con altri più sporchi per tornare poi a ripristinare ciò che è stato svuotato. Inutile sottolineare come questo meccanismo rappresenti un ingente spreco di risorse, ma anche un assist a tutti coloro i quali abbiano interesse a liberarsi di tali rifiuti in maniera non propriamente lecita. Per alcune lobby fa molto comodo considerare  le terre e le rocce da scavo come rifiuto. Tale definizione genera infatti ingenti guadagni sia per lo smaltimento (legale o illegale), che per quanto riguarda la movimentazione stessa dei materiali e siamo a conoscenza di come il trasporto della terra e dei rifiuti sia spesso in mano a famiglie malavitose.

Nel 2012 e 2013, alcune norme hanno finalmente sciolto il nodo fornendo, come interpretazione autentica, la definizione di materiali di riporto, ma soprattutto sancendone definitivamente l’assimilabilità al suolo e sottosuolo. Inoltre con le norme recenti i materiali di riporto, non solo sono assimilati ai suoli, ma possono essere riutilizzati. Il riutilizzo è consentito a patto che all’interno del materiale da riporto in questione non venga superato il limite del 20% di materiale antropico. Già ma il 20% di cosa? Peso, volume, numero? È immediato rendersi conto come questo valore sia del tutto arbitrario. L’ultima bozza del decreto farebbe propendere per un’interpretazione sul peso, ma questo vincolo, arbitrario, non scientifico ed avulso dalle caratteristiche qualitative del riporto, ripropone il problema di una potenziale movimentazione immotivata di tali materiali.

Al fine di evitare tutto ciò, all’interno del nuovo decreto dovrebbe essere stralciato il riferimento al limite massimo del 20% di materiale antropico, che può essere contenuto nella matrice materiale di riporto per le attività e gli utilizzi di cui al regolamento dispone. Infatti questo limite, introdotto per la prima volta dal DM 161/2012, seppur riferito alla massa, non trova riscontro in alcun riferimento tecnico-scientifico. Si tratta infatti di un numero puramente discrezionale, che non può essere motivato in alcun modo. È palese come un valore espresso in percentuale abbia diversa rilevanza in funzione del peso del materiale in questione. Viceversa il riferimento al 20% in peso può, paradossalmente, autorizzare ad utilizzare come matrici materiali di riporto terreni, in ipotesi, caratterizzati da ampia presenza di plastica e dunque contaminati. A nostro avviso infatti sarebbe più utile, una volta caratterizzato il materiale come non contaminato e quindi “sdoganato” dal punto di vista ambientale, prevedere una selezione della frazione antropica al fine di garantire il raggiungimento delle caratteristiche prestazionali necessarie al tipo di reimpiego previsto. E’ evidente che tali caratteristiche saranno differenti in funzione dell’utilizzo previsto.

rocce da scavo 2Le opportune modifiche suggerite servirebbero a scongiurare il rischio di avviare a rimozione e smaltimento dei materiali fondamentalmente “puliti”, andando in contrasto con quanto invece indicato dalle direttive comunitarie sia in merito alla riduzione della produzione di rifiuti sia in merito alla riduzione del consumo di suolo e di risorse naturali.Sempre in quest’ottica vanno regolamentati i test di cessione. Questo test è stato introdotto proprio con la norma del 2013 a cui ci si riferiva in precedenza al fine di valutare il potenziale rilascio di sostanze inquinanti dal materiale di riporto. Ma il test indicato è stato mutuato da una normativa relativa al riutilizzo di rifiuti e quindi è stato adattato ad una matrice diversa, usando come riferimento per le soglie di accettabilità la tabella delle acque di falda del D.lgs.152/06 e non la tabella della norma da cui è stato mutuato e cioè il DM 5 febbraio 1998.

A questo si aggiunga che il legislatore ha inserito previsto che il test sia effettuato sui materiali granulari (con frantumazione quindi del materiale): si evidenzia però che le norme UNI a cui si fa riferimento, non indicano la riduzione volumetrica del campione a questa sola frazione, ma prevedono diverse modalità di trattamento a seconda delle caratteristiche granulometriche del materiale da sottoporre al test di cessione. In questo modo il materiale che avviamo al test non è rappresentativo del materiale in posto e si introduce una sovrastima della potenziale cessione di inquinanti, ricreando ancora una volta quel circuito di produzione virtuale di rifiuti. Inoltre non è chiaro, nella norma, in quale modo debba essere trattato, da un punto di vista procedurale, il materiale di riporto che non supera il test di cessione.

Vogliamo arrivare ad un punto in cui, una volta effettuato il test in maniera scientifica e dettagliata, l’azienda abbia davanti a sé tre ipotesi chiare e ben delineate: A) Il materiale antropico non rilascia sostanze inquinanti nel terreno: la terra è pulita; B) Bonifica in sito, da effettuare secondo i dettami della normativa vigente (parte IV del D.lgs.152/06); C) La terra è inquinata e necessita di essere smaltita come rifiuto, questa ipotesi deve però rappresentare l’eccezione non la regola.

L’ultima criticità riguarda le concentrazioni d’amianto. Nella definizione delle “terre e rocce da scavo” prevede che esse possono contenere, al massimo, una concentrazione di amianto nel limite massimo di 100 mg/kg: “limite di rilevabilità analitico”. Pur essendo favorevoli a qualunque riduzione delle soglie di inquinanti, dobbiamo però evitare che tale abbassamento del limite minimo consentito non finisca per tramutarsi in un caso di gold plating: ovvero la trasposizione della normativa comunitaria che va oltre quanto richiesto da quella stessa normativa. Il limite di 100 mg/kg, se mantenuto, determinerebbe, la movimentazione di terre e rocce (classificate come rifiuti per la presenza di amianto) per il conferimento in altri Paesi dell’U.E., nei quali esse non sarebbero più rifiuti dopo un semplice passaggio in un qualsiasi impianto di trattamento. Poiché l’amianto in condizioni di confinamento, come ad esempio quando si trova sottoterra in minime concentrazioni, non rappresenta un pericolo per la salute, vorremmo evitare che lo diventasse a seguito della movimentazione sul territorio indotta dal limite attuale.

Siamo in un paese in cui la stragrande maggioranza degli edifici ha coperture e coibentazioni, sia esterne che interne, realizzate con materiali contenenti amianto, dove esistono ancora scuole con il linoleum su cui giocano i bambini impastato con l’amianto. I piani di rimozione vedono il limite temporale spostarsi di 5 anni in 5 anni (Recente dilazione in RL dal 2015 al 2020).

Allora appare prioritario in questo momento intervenire sui programmi di censimento, messa in sicurezza e rimozione per arrivare davvero all’eliminazione totale dei manufatti che spesso nascosti e silenziosi rilasciano fibre senza che i bersagli se ne rendano conto e non creare un nuovo circuito di rifiuti di difficile gestione che non risolve il problema dell’esposizione ancora in corso e, anzi, sembrerebbe in qualche spostare l’attenzione su un provvedimento falsamente incisivo.

Il Movimento Cinque Stelle è disposto a discutere sui temi, come già avvenuto in passato, a patto che tale discussione avvenga tramite un reale coordinamento con i soggetti interessati, rendendo di conseguenza possibile emanare una norma la cui entrata in vigore non crei ulteriore confusione, bensì semplifichi realmente la vita, e soprattutto il lavoro, alle aziende virtuose.

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