La desertificazione è, fra le conseguenze dei cambiamenti climatici, quello che avrà nel breve un impatto maggiormente significativo all’interno della nostra quotidianità. Sbagliando, i governi europei hanno per anni trascurato il problema, bollando il fenomeno come esclusivamente africano. Sottovalutando due cose. La prima: l’impatto che la desertificazione ha sui flussi migratori, chiunque abbandonerebbe una terra arida e incapace di regalare frutti. La seconda: qualora non riuscissimo a fermare l’innalzamento globale delle temperature, presto il problema del land degradation non sarà più un problema esclusivamente africano.
Nel corso dell’ultima Conferenza Mondiale sul Clima, la Cop22 di Marrakech, ho avuto modo di conoscere personalmente Mastrojeni Grammenos di UNCCD ovvero “United Nation Convention to Combat Desertification“. La UNCCD è una delle tre “convenzioni di Rio” lanciate al Summit della Terra del 1992, assieme a quelle sul clima e sulla biodiversità. Il primato sul problema della “land degradation” ha proiettatto la UNCCD alla ribalta anche entro il negoziato climatico poiché tutti gli abbattimenti di carbonio non conseguibili nel settore energia, ovvero due terzi del totale, possono solo derivare da una migliore gestione delle terre.
Il lavoro di UNCCD ha permesso, per la prima volta, di sperimentare sul campo una metodologia di contenimento delle pressioni migratorie tramite recupero di terre degradate. Si tratta del programma: West Africa: promoting sustainable land management in migration-prone areas through innovative financing mechanisms. Tale progetto sperimenta meccanismi di promozione degli investimenti della diaspora nel recupero delle terre e nell’adattamento ai cambiamenti climatici nel paese d’origine (una delle attività pilota per il Senegal è stata l’apertura a Milano di un ufficio per la diaspora per promuovere crediti e incentivi agli investimenti nella gestione sostenibile del suolo da parte dei migranti). L’approccio apre la strada a interventi con notevole rapporto costo/risultato: con circa 150 U$ è possibile recuperare un ettaro di terreno degradato rendendolo un efficace pozzo di carbonio, ma ottenendo nel contempo la tutela della biodiversità e dell’equilibrio idrico, diminuzioni locali della temperatura, il consolidamento comunitario, la creazione di un surplus agricolo da reinvestire nel manifatturiero, empowerment locale, familiare e femminile, un freno al land grabbing grazie alla riappropriazione delle terre ridivenute produttive, e quindi l’ancoraggio alle comunità d’origine e un freno alle spinte migratorie e ai fanatismi.
Personalmente ho trovato questo tipo di approccio decisamente interessante. Per questo motivo desideravo condividerlo con voi e magari discuterne assieme. Di seguito trovate un dettagliato repeort del progetto realizzato da UNCCD.
Ritengo che proteggere la terra sia il primo fondamentale passo, per salvare l’intero pianeta. Tutelare il territorio, tutelarne il suolo, significa anche tutelare le persone che lo abitano. Ricordate la storia di quell’isola africana dove al posto delle trivelle, la cooperazione internazionale ha permesso di creare una filiera di produzione di cacao? Ecco il concetto è sempre lo stesso. Salvare la terra, dare alle popolazioni locali la possibilità di viverne, limitando di conseguenza i flussi migratori. Un concetto semplice a dirsi, ma che richiederà un’immenso sforzo internazionale, sia in termini di cooperazione sia, soprattutto, in termini di interessi. Smettere di pensare a ritorni immediati e cominciare a lavorare per il domani è il cambiamento più difficile che la nostra generazione sarà chiamata ad affrontare.